venerdì 3 ottobre 2014

Julia

Julia ha trovato un amico che le scrive, adesso. Non so chi sia. Quando l'ho vista entrare da quella porta ho avuto di nuovo paura.
Ho avuto paura che ancora una volta mi chiedesse di raccontarle qualcosa. Qualcosa che la aiutasse a dimenticare quegli arti arsi che sempre si porta appresso sulla sua sedia a rotelle. E già mi preparavo una scusa. E già pensavo che la mia scusa non sarebbe servita – come al solito. E già mi vedevo a implorarla di andare via, lei e il dolore che le aleggiava intorno. Ma già mi vedevo piangere con la testa appoggiata sul suo ventre e chiederle scusa e attendere che le sue dita si stancassero di intrufolarsi tra i miei capelli. E sarei stato così per ore – come al solito. Il capo reclinato sul suo morbido ventre, il suo viso leggermente chino e piegato da un lato per meglio cogliere le parole che ancora sarei riuscito a creare per darle sollievo. Le parole che per alleviare il suo dolore esasperavano il mio.
Le parole che alleviando la sua angoscia rendevano la mia sempre più opprimente. Ma lei aveva bisogno di sempre nuove parole. E io ne sopportavo sempre meno. E lei continuava a ritornare da me con il suo rinnovato dolore. E io ero ancora lì con il dolore della volta prima e di quella prima ancora. Con il dolore di tutte le volte in cui ci eravamo incontrati. Qui nella mia stanza, in penombra. E ogni volta lei sembrava non vedere. È sempre stato così. Non ha mai notato il mio corpo deperire di volta in volta. Ma perché avrebbe dovuto?
Perché avrebbe dovuto, finché continuavo a darle ciò che da me attendeva? Perché avrebbe dovuto, finché in me c'era ancora tanta di quella speranza, tanta di quella leggiadra fantasia, di quella dolcezza, d'ogni sogno pensato che persino io mi meravigliavo d'aver saputo ogni volta creare? Perché avrebbe dovuto finché per lei l'unica voce gentile era quella della mia anima?
L'unica voce, l'unico verbo e l'unico spirito che non la ferivano li aveva trovati qui. In me e nella buia stanza che mi possiede.
E quando infine sollevavo il mio capo, c'era qualcosa di nuovo intorno a lei. L'espressione disperata con cui era arrivata, quel muto aiuto implorato da tutto il suo essere, avevano lasciato il posto a una pacatezza inarrivabile. Bella e fiera, serena e orgogliosa, così mi appariva dopo che le mie parole l'avevano inondata come flusso fresco e inarrestabile. E allora, sollevato il capo, tutto il mio essere pareva concentrarsi sull'umido ventre di Julia dove, nella scarsa luce, luccicavano le mie più recenti lacrime. Allora mi riscoprivo melenso. Allora avrei voluto davvero capire che cos'è che rende i cuori di pietra e far mio l'insegnamento e entrare a far parte della schiera dei ben temprati. E in quella schiera far carriera. E da un pulpito ammonire chi lascia sgorgare lacrime fuori dei propri occhi per degli assurdi, insulsi giochi del sentimento. E quando i nostri sguardi si incontravano dopo il rito...
Tanta era la sua gioiosa riconoscenza, il trasporto con cui mi manifestava la sua gratitudine... tanta era l'amarezza che io provavo lasciandomi trasportare, inerme ormai, incapace di qualsiasi reazione. Ciò che era possibile tra noi a quel punto, l'unica cosa che ci permetteva di comprenderci a vicenda, era il mio capo che tornava a cercare rifugio nel suo ventre. Era quando le sue dita tornavano a frugare tra i miei capelli e poi, morbide sul collo, mi sollevavano e portavano le mie labbra all'altezza delle sue. Baciava, si protendeva e baciava ancora, intensamente. Sussurrava anche lei a quel punto. Sospirava. E quando poi con me si adagiava, gemeva e ripeteva grazie. Ed erano quelli gli istanti in cui credevo di capire perché la storia non si sarebbe esaurita così presto. Erano istanti che provavano a farmi capire quanto fosse importante che la nostra storia continuasse. Ma in quei medesimi istanti continuavo a temere dove tutto questo mi avrebbe portato.
Poi, nudo, mi alzavo e, per l'unica volta in tutta la mia giornata, scostavo le tendine alla finestra. E strizzavo gli occhi alla luce del sole che, quasi per pudore, si affrettava a nascondersi per lasciare il posto alla luna che faceva capolino scortata dal suo esercito di grosse nubi scure. Accostavo allora le tendine e tornavo alla mia penombra.
Tornavo da lei, la tiravo su, la aiutavo a lavarsi e poi la sollevavo di nuovo sulla sua sedia a rotelle. A quel punto, ogni volta, mi chiedeva di mostrarle le fotografie, tutte, anche quelle stampate male, ogni singolo fotogramma catturato dalla mia vecchia reflex. Riusciva a vedere qualcosa anche dietro orribili macchie d'acido. E in quei puntini di colore fuori posto pareva concentrare la sua attenzione ancor più che sulla composizione e sull'immagine stessa. Non le feci mai domande al riguardo. A dire il vero non le facevo mai domande.
Mi bastava osservarla. Bastava ad appagare la mia curiosità. Non mi serviva capire. E non cedetti mai alla tentazione di voler capire. Era già troppo quello che avevo. E non potevo rischiare di rompere qualcosa nel suo incanto. Ero già a pezzi e non avrei sopportato altre percosse. Sebbene fossi ancora in piedi non riuscivo a evitare di intravedere, talvolta, una fossa aperta attendermi al prossimo passo. Tutto questo mi stava lacerando. Tutto questo mi aveva distrutto.
E poi mi chiedeva nuovi scritti. Mi ridava quelli che le avevo dato la volta prima. “Li ho ricopiati”, diceva, e prendeva quelli che la mia mano tremante riusciva a tenere e quella mano, nel prenderli, lei me la accarezzava. Riponeva i nuovi fogli nella sua cartella e poi con tutte e due le mani tornava a prendere la mia e la avvolgeva, come se volesse proteggerla da un ambiente ostile. Non capiva, ma non era la sola a non capire. C'ero lì anch'io a non capire che non mi sarebbe stato possibile separarmi da lei e dalle situazioni che ogni volta si creavano tra noi e per noi e a causa di noi.

Due anni. Due anni. L'incidente. Tra poco avremmo celebrato i tre anni. La benzina sul suo corpo, ben distribuita. Questa era la sua vendetta. Quel cerino acceso. Non mi avrebbe perdonato mai. La mia corsa folle. Il mio corpo sul suo per spegnere le fiamme. Le mie imprecazioni. Le mie parole che non sarebbero state di conforto a un neonato in salute. La nostra diversa stupidità in quell'istante. O la sua perfetta intuizione e la mia stupidità. E lo spegnersi di un tentato addio. E tracce che non scompariranno mai. E arti per sempre arsi. E la sedia a rotelle qualche tempo dopo.

Quella fu la sera in cui dimenticai di scostare le tendine e baciare la luna. E da allora fu timida con me e troppo di rado le ho donato le mie notti da quando il destino calcò un po' troppo la mano, usandomi come un falegname, dopo che l'albero è stato tagliato dal boscaiolo, usa chiodi e mastice per ridare al legno una parvenza di utilità. Da allora mi toccò vivere per lei. Per lei che mi voleva bene, ma che mai avrebbe lasciato che i nostri sentimenti coincidessero. E da allora l'avrei sempre ritrovata nella mia stanza in penombra a soffrire del suo essere e a lasciarla gioire del mio. Questo temevo anche quando per l'ultima volta udii il soffocato cigolio delle sue ruote avvicinarsi alla porta della mia stanza in penombra.
Ma questa volta non chiese aiuto.
Questa volta volle soltanto rendermi ciò che era mio.
Ho trovato qualcuno che mi scrive”, disse. Lo disse sorridendo. E non l'avevo mai vista sorridere in quel modo.
Fu inutile gettarmi sul suo ventre. Piombai goffamente sul pavimento mentre lei indietreggiava con la sua sedia a rotelle. Poi mi prese la mano e impresse le sue labbra su di essa. E un attimo prima di voltarsi ripeté quella frase e ribadì quel sorriso. Se ne andava. Per sempre. E ciò avrebbe dovuto rendermi felice. Ma sto pensando a lei adesso. A tutto ciò che mi ha dato, a tutto ciò che da lei pretendevo senza rendermi conto di averlo già ricevuto oltremisura.
Julia ha trovato qualcuno che le scrive... per adesso.

© 2010 Giacomo Mattia Schmitt

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