Julia
ha trovato un amico che le scrive, adesso. Non so chi sia. Quando
l'ho vista entrare da quella porta ho avuto di nuovo paura.
Ho
avuto paura che ancora una volta mi chiedesse di raccontarle
qualcosa. Qualcosa che la aiutasse a dimenticare quegli arti arsi che
sempre si porta appresso sulla sua sedia a rotelle. E già mi
preparavo una scusa. E già pensavo che la mia scusa non sarebbe
servita – come al solito. E già mi vedevo a implorarla di andare
via, lei e il dolore che le aleggiava intorno. Ma già mi vedevo
piangere con la testa appoggiata sul suo ventre e chiederle scusa e
attendere che le sue dita si stancassero di intrufolarsi tra i miei
capelli. E sarei stato così per ore – come al solito. Il capo
reclinato sul suo morbido ventre, il suo viso leggermente chino e
piegato da un lato per meglio cogliere le parole che ancora sarei
riuscito a creare per darle sollievo. Le parole che per alleviare il
suo dolore esasperavano il mio.
Le
parole che alleviando la sua angoscia rendevano la mia sempre più
opprimente. Ma lei aveva bisogno di sempre nuove parole. E io ne
sopportavo sempre meno. E lei continuava a ritornare da me con il suo
rinnovato dolore. E io ero ancora lì con il dolore della volta prima
e di quella prima ancora. Con il dolore di tutte le volte in cui ci
eravamo incontrati. Qui nella mia stanza, in penombra. E ogni volta
lei sembrava non vedere. È sempre stato così. Non ha mai notato il
mio corpo deperire di volta in volta. Ma perché avrebbe dovuto?
Perché
avrebbe dovuto, finché continuavo a darle ciò che da me attendeva?
Perché avrebbe dovuto, finché in me c'era ancora tanta di quella
speranza, tanta di quella leggiadra fantasia, di quella dolcezza,
d'ogni sogno pensato che persino io mi meravigliavo d'aver saputo
ogni volta creare? Perché avrebbe dovuto finché per lei l'unica
voce gentile era quella della mia anima?
L'unica
voce, l'unico verbo e l'unico spirito che non la ferivano li aveva
trovati qui. In me e nella buia stanza che mi possiede.
E
quando infine sollevavo il mio capo, c'era qualcosa di nuovo intorno
a lei. L'espressione disperata con cui era arrivata, quel muto aiuto
implorato da tutto il suo essere, avevano lasciato il posto a una
pacatezza inarrivabile. Bella e fiera, serena e orgogliosa, così mi
appariva dopo che le mie parole l'avevano inondata come flusso fresco
e inarrestabile. E allora, sollevato il capo, tutto il mio essere
pareva concentrarsi sull'umido ventre di Julia dove, nella scarsa
luce, luccicavano le mie più recenti lacrime. Allora mi riscoprivo
melenso. Allora avrei voluto davvero capire che cos'è che rende i
cuori di pietra e far mio l'insegnamento e entrare a far parte della
schiera dei ben temprati. E in quella schiera far carriera. E da un
pulpito ammonire chi lascia sgorgare lacrime fuori dei propri occhi
per degli assurdi, insulsi giochi del sentimento. E quando i nostri
sguardi si incontravano dopo il rito...
Tanta
era la sua gioiosa riconoscenza, il trasporto con cui mi manifestava
la sua gratitudine... tanta era l'amarezza che io provavo lasciandomi
trasportare, inerme ormai, incapace di qualsiasi reazione. Ciò che
era possibile tra noi a quel punto, l'unica cosa che ci permetteva di
comprenderci a vicenda, era il mio capo che tornava a cercare rifugio
nel suo ventre. Era quando le sue dita tornavano a frugare tra i miei
capelli e poi, morbide sul collo, mi sollevavano e portavano le mie
labbra all'altezza delle sue. Baciava, si protendeva e baciava
ancora, intensamente. Sussurrava anche lei a quel punto. Sospirava. E
quando poi con me si adagiava, gemeva e ripeteva grazie. Ed erano
quelli gli istanti in cui credevo di capire perché la storia non si
sarebbe esaurita così presto. Erano istanti che provavano a farmi
capire quanto fosse importante che la nostra storia continuasse. Ma
in quei medesimi istanti continuavo a temere dove tutto questo mi
avrebbe portato.
Poi,
nudo, mi alzavo e, per l'unica volta in tutta la mia giornata,
scostavo le tendine alla finestra. E strizzavo gli occhi alla luce
del sole che, quasi per pudore, si affrettava a nascondersi per
lasciare il posto alla luna che faceva capolino scortata dal suo
esercito di grosse nubi scure. Accostavo allora le tendine e tornavo
alla mia penombra.
Tornavo
da lei, la tiravo su, la aiutavo a lavarsi e poi la sollevavo di
nuovo sulla sua sedia a rotelle. A quel punto, ogni volta, mi
chiedeva di mostrarle le fotografie, tutte, anche quelle stampate
male, ogni singolo fotogramma catturato dalla mia vecchia reflex.
Riusciva a vedere qualcosa anche dietro orribili macchie d'acido. E
in quei puntini di colore fuori posto pareva concentrare la sua
attenzione ancor più che sulla composizione e sull'immagine stessa.
Non le feci mai domande al riguardo. A dire il vero non le facevo mai
domande.
Mi
bastava osservarla. Bastava ad appagare la mia curiosità. Non mi
serviva capire. E non cedetti mai alla tentazione di voler capire.
Era già troppo quello che avevo. E non potevo rischiare di rompere
qualcosa nel suo incanto. Ero già a pezzi e non avrei sopportato
altre percosse. Sebbene fossi ancora in piedi non riuscivo a evitare
di intravedere, talvolta, una fossa aperta attendermi al prossimo
passo. Tutto questo mi stava lacerando. Tutto questo mi aveva
distrutto.
E
poi mi chiedeva nuovi scritti. Mi ridava quelli che le avevo dato la
volta prima. “Li ho ricopiati”, diceva, e prendeva quelli che la
mia mano tremante riusciva a tenere e quella mano, nel prenderli, lei
me la accarezzava. Riponeva i nuovi fogli nella sua cartella e poi
con tutte e due le mani tornava a prendere la mia e la avvolgeva,
come se volesse proteggerla da un ambiente ostile. Non capiva, ma non
era la sola a non capire. C'ero lì anch'io a non capire che non mi
sarebbe stato possibile separarmi da lei e dalle situazioni che ogni
volta si creavano tra noi e per noi e a causa di noi.
Due
anni. Due anni. L'incidente.
Tra poco avremmo celebrato i tre anni. La benzina sul suo corpo, ben
distribuita. Questa era la sua vendetta. Quel cerino acceso. Non mi
avrebbe perdonato mai. La mia corsa folle. Il mio corpo sul suo per
spegnere le fiamme. Le mie imprecazioni. Le mie parole che non
sarebbero state di conforto a un neonato in salute. La nostra diversa
stupidità in quell'istante. O la sua perfetta intuizione e la mia
stupidità. E lo spegnersi di un tentato addio. E tracce che non
scompariranno mai. E arti per sempre arsi. E la sedia a rotelle
qualche tempo dopo.
Quella
fu la sera in cui dimenticai di scostare le tendine e baciare la
luna. E da allora fu timida con me e troppo di rado le ho donato le
mie notti da quando il destino calcò un po' troppo la mano, usandomi
come un falegname, dopo che l'albero è stato tagliato dal boscaiolo,
usa chiodi e mastice per ridare al legno una parvenza di utilità. Da
allora mi toccò vivere per lei. Per lei che mi voleva bene, ma che
mai avrebbe lasciato che i nostri sentimenti coincidessero. E da
allora l'avrei sempre ritrovata nella mia stanza in penombra a
soffrire del suo essere e a lasciarla gioire del mio. Questo temevo
anche quando per l'ultima volta udii il soffocato cigolio delle sue
ruote avvicinarsi alla porta della mia stanza in penombra.
Ma
questa volta non chiese aiuto.
Questa
volta volle soltanto rendermi ciò che era mio.
“Ho
trovato qualcuno che mi scrive”, disse. Lo disse sorridendo. E non
l'avevo mai vista sorridere in quel modo.
Fu
inutile gettarmi sul suo ventre. Piombai goffamente sul pavimento
mentre lei indietreggiava con la sua sedia a rotelle. Poi mi prese la
mano e impresse le sue labbra su di essa. E un attimo prima di
voltarsi ripeté quella frase e ribadì quel sorriso. Se ne andava.
Per sempre. E ciò avrebbe dovuto rendermi felice. Ma sto pensando a
lei adesso. A tutto ciò che mi ha dato, a tutto ciò che da lei
pretendevo senza rendermi conto di averlo già ricevuto oltremisura.
Julia
ha trovato qualcuno che le scrive... per adesso.
©
2010 Giacomo Mattia Schmitt
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