Dark
star crashes, pouring its light into ashes
(Robert C. Hunter)
Non puoi berti tutto il mondo e sperare,
anche soltanto sperare,
di non aver mai più sete.
Siamo tutti piccoli mondi impenetrabili
e un dono non sarà mai
quello giusto davvero
per chi si affretta comunque alla morte
certo soltanto
di lembi di mistero
in attesa perenne della loro stele.
Se Dio vuole posso farcela, se non vuole
sarà stato giusto
non avercela fatta.
Qualche volta posso osare avvicinarmi,
tendere timidamente
una mano, sfiorare,
toccare un attimo per capire di che sa,
ma è rapido il fulmine
che me la fa ritrarre.
A un passo dal cielo
si rischia di smarrirsi,
lì dove ragni intessono delusioni e pene
e non c’è chi,
non si vede chi,
non si crede chi: un gatto? un falco?
possa strapparle
e le strapperà
per restituire il candore alla parete.
Sarò catapultato al principio, ma già
carico del futuro,
oppresso, spossato,
ormai limitato nei movimenti, nelle
mosse.
Non posso piangere,
non posso farlo, oggi.
Un cavallo e la regina proteggono il re.
Il pedone lo contesta.
Non posso piangere,
non posso farlo, ma abbandono il gioco.
Resto a osservarlo.
Riduco il respiro.
La pioggia sferza impudica i finestrini,
lascia tracce e rivoli,
li frusta ma non entra,
resta fuori sul mondo in attesa,
immobile,
che la smetta di provarci.
A volte è come se,
smarrito, mi fossi sposato con me stesso
e attendessi, impaziente,
una ragione per divorziare.
Quando io non ci sarò più prenditi cura
di me,
estirpa le erbacce
della mia esistenza.
Piango spesso, senza nessuno dei vostri
motivi
e soltanto qualcuno
di quelli miei.
Poi però lascio asciugare le lacrime e
vado
a lavorare
o a cucinare
o a portare l’auto dal meccanico o a
comprare
il cibo al gatto
e qualcosa anche per me.
E non so ancora perché accade, perché lo
faccio.
Il diavolo è venuto a giocare nel mio
cortile,
ma non è rimasto a lungo.
Ogni tanto arriva, poi però
tornano sempre i pensieri belli: e lui
scappa.
Peccato e virtù,
come olio e acqua.
Quando provi a mischiarli qualcosa
muore.
Chi ricorda i farmacisti che
impacchettavano i farmaci
e mille altri gesti che
non ci riguardano più?
Ci preoccupavamo di ricordarci il cambio
dell’ora,
ora non più, ci pensano
per noi gli inanimati.
Dio è tanto buono che renderà l’inferno
sopportabile.
E a ferirci
sarà il suo amore.
Se non c’è più nulla oltre la curva
conviene scontrarsi
col muro e sperare
di attraversarlo.
Qualsiasi cosa sia rimasta io non riesco
a vederla.
Dammi forza
tu che puoi
e luce per i miei occhi affinché io
sappia.
Importante è quanto io sappia ancora amare,
non quanto
io sia amato.
Non sono la fenice, ma ho sempre volato
per non smettere mai
e se un giorno le mie ali
bruceranno le osserverò ardere da me
distanti:
io starò ancora
proseguendo il volo.
Un’altra luce si è spenta per sempre:
quante ne restano
a illuminare
il viale?
Quante munizioni ancora per tenere a
bada le tenebre?
Ma poi saranno gli zombie a farla da
padroni.
I nostri, noi,
o i loro, loro?
Una carneficina di desideri e poi di
sogni
e infine
di speranza
lascia un campo brullo intriso di
sangue.
Mi rialzerò, forse, quando tutto sarà
passato.
Non in un’alba.
Non in questa notte.
Non in una voglia d’amore, di morte, di
oblio.
Solo, in una folle
gioia di culla.
Inutile, vana, cieca, ma gioia. E folle,
esagerata,
come di chi vede
l’oro nel fango
e non si accorge del sangue e del
veleno. Salvami.
Riconosco il nemico lontano un miglio,
ma
spegnerò la luce
in questa notte:
la mia anima sfavillerà e soffocherà le
tenebre.
Però, con lei sarei stato bene
vicino alle stelle e oltre
in viaggio verso quella scura,
quella scura,
con te.
© Giacomo Mattia Schmitt